« indietro PIERLUIGI CAPPELLO, Dentro Gerico, Presentazione di Giovanni Tesio, Tavola di Sergio Toppi, La barca di Babele, 8, Circolo Culturale di Meduno, 2002, pp. 63, s.i.p.
Dentro Gerico segna una svolta importante nella produzione in italiano di Pierluigi Cappello (Gemona 1967), in quanto, dopo le sperimentazioni dell’esordio ne Le nebbie (1994) e l’originalità di temi e ritmi evidenziata in La misura dell’erba (1998), avvia una nuova stagione poetica. Il libro s’impone alla riflessione per il perfetto equilibrio tra la densità delle tematiche, radicate in un’esperienza biografica lacerante, e la saldezza dell’architettura formale, cifra stilistica di misura quasi classica, funzionale alla necessità di contenere – e dominare – in versi quell’esperienza (come ha rilevato Alessandro Fo, che in questo stesso Semicerchio, dedica un paragrafo del suo saggio a quest’autore, e evidenzia il rapporto tra il dramma esistenziale e un’inusuale e coinvolgente rilettura degli antichi). In Dentro Gerico si compie l’itinerario dell’io, che, forzatamente immobile dentro le mura della ‘sua’ città, combatte ogni giorno una dura battaglia («qui resistere significa esistere») per non cedere all’urto della realtà. In versi dove l’elemento visivo è preminente (G.Tesio), perché solo con gli occhi il poeta si appropria di una realtà che il suo stato gli preclude, le parole ‘vedono’ e registrano quest’atonia della sensibilità e il senso di vuoto che ne deriva. Ma l’io lirico sa aprire nuove brecce dentro il carcere di una condizione trasfigurata a mezzo di metafore stranianti («nottata di crocifissi, in fiamme»), preludio al «culmine di spasimo» a cui un dio capriccioso lo ha incatenato, smarrito Prometeo dei nostri giorni (Isola). Sa scorgere i segni di salvezza provenienti dall’esterno: tracce labili, come il fischio di un passante, perché è «raro sentire fischiare / o fischiettare / se qualcuno lo fa / l’aria sembra fargli spazio / ti sembra che un refolo muova / la flora dei tuoi pensieri / ti metta dove prima non eri». L’illusione può mancare «e tu rientri dov’eri / dietro il douglas dei serramenti / dentro il livore / degli appartamenti» (Gerico). Ma se le parole sono occhi che «non vedono mai abbastanza» (Voce sola), esse riescono a perforare la sordità della materia. Perché l’io lirico sa guardare le cose con lo sguardo di un bambino e ritrovare negli spazi del ricordo, e più in quelli del desiderio, il suo Pequod e «le murate delle navi» che oscuravano i cieli dell’infanzia. Una sinestesia rimbaudiana di «azzurri mai uditi» congiunge ieri e oggi, e quegli azzurri colorano le visioni de Le notti calde e gli alisei, la cui collocazione finale nella silloge, sembra indicare una via di fuga nell’avventuroso viaggio di chi affida alla parola («Libro e libero sono una cosa») il compito di trovare il conforto di marine «rade dove saldi si alzano i desideri / finché non scivolerà via dai sogni / l’impronta di quei sogni...». (Anna De Simone) ¬ top of page |
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