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GIAN MARIO VILLALTA, Nel buio degli alberi, Meduno, Circolo culturale di Meduno – La Barca di Babele, 2001, pp. 48, s.i.p. (Segreteria di redazione tel. 0427/86259 – 0423/868680).

 

Questo piccolo libro dell’autore friulano si compone di 20 brevi poesie, accompagnate da 3 tavole di Claudio Guerra. Villalta continua su vie già aperte altrove: la concentrazione sul sé autobiografico, l’attenzione e apertura ai richiami multidisciplinari ai quali la letteratura può rapportarsi (neuroscienze, etologia, antropologia del vicino, ad esempio), un lavoro incessante sulla memoria, lo sforzo per intendere di quale complessità (‘complessità’ non è contrario di ‘semplicità’) linguistica, testuale e visiva necessiti la rappresentazione dell’oggi. A muovere le poesie qui raccolte ci sono stimoli (‘deboli’, se così si può dire) che non si possono considerare ‘cause’ dei versi. Infatti, per il neurofisiologo Berthoz, citato da Villalta in apertura, è da abbandonare l’idea che i sistemi sensoriali ricevano stimoli. La loro funzione principale non è la ricezione bensì la simulazione dell’azione. Contro la rappresentazione cartesiana dello spazio, è ribaltata in attività la ‘tradizionale’ passività riconosciuta ai sistemi sensoriali. Si leggano allora l’iniziale Corro incontro alla terra, Perché ora vieni casa, antenna, vaso oppure Ruotano intorno al noce le cinque case. Il testo poetico non è mai una necessaria conseguenza di ‘un prima’ temporale («La parola sempre non vuole dire uguale / domani, / o che ripete questo giorno la sua luce / di rivelazione – / dico sempre e vuol dire che il colore / di questa giornata ha infiltrato i giorni / miei tutti, / si è ritrovato, nel passato, e in questa luce, / che lo ha conosciuto, / ha radunato il pensiero »). La materia temporale e la memoria si stemperano e coabitano nel mondo di questi stimoli (i quali possono essere anche assenze). La poesia nascente è allora ‘empirica’ nel senso che vive con la realtà di cui è parte e insieme tentativo di comprensione (ritmica, visiva, emozionale): «Posso aggiungere solo che incontro / sullo stradone ogni mattina / i pioppi, e uno per uno / fogliano lenti e insieme fanno il tempo. / Ogni giorno anche loro cambiano, / li indovino nel verde più intenso / (vorrei fermarmi, guardarli uno per uno) / e quando ritorno, ogni giorno, nell’altro senso, / li perdo – e allora penso: passano ». Le tensioni che la poesia di Villalta riflette sono quelle di una realtà che spinge all’attenzione costante verso la memoria e soprattutto verso il riposizionarsi inesausto di ogni momento del vissuto e del pensiero («Quello che sento diventare è sapore / e distanza che si piega nella mente. / Il tiglio è adesso tiglio veramente, / ogni goccia di pioggia nel suo nitore / è pioggia e goccia infinitamente»). Emanuele Trevi nella nota iniziale ipotizza che le poesie qui contenute disegnino «il mondo così come esso può essere descritto e pensato durante l’esercizio, gratuito e senza pretese, della corsa». La corsa diviene così una «tecnica d’alterazione» efficace alla comprensione degli spazi nonché al ritrovamento (perché di riscoperta si tratta, in senso quasi platonico) di una materia linguistica e ritmica personale, saldata in tale sforzo di comprensione. È molto probabile che sia l’azione (così Berthoz: «il cervello non costruisce lo spazio in maniera cartesiana e topografica, ma in unità legate all’azione») a interessare profondamente Villalta. Se ogni azione è anche spiegazione di qualcosa, allora la poesia è una pura azione se instaura con la realtà una corrispondenza di senso. Così non siamo noi a guardare ma diventiamo sguardo del movimento: «Ho meritato di sentire una rete metallica / traforata dall’aria, suonata dal prato intorno / scorrendo il suo orlo appuntito, / ho meritato di sentire la stagione perfetta / con le ginocchia e i muscoli del collo. / Non so quando è stato, il passato / era al mio fianco e non indietro, / non io a guardare ma diventare sguardo / del movimento – non lo so quando ho meritato / di morire».

 

(Alberto Cellotto)


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