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Metamorfosi Engadinesi (2002)
JULIER
Cattedrali della transumanza valichi della passione di bestie tarde ai loro scranni appena intravisto l’altare subito dietro l’altare. Negli occhi stagnanti le cime che è sera mille e più corna accese oscillano insieme votate al rito in declino. Lo sai il pascolo che lasci quello con l’erba più offesa al crepuscolo di ogni passaggio, uno zoccolo e poi l’altro rimpianto e rimpianto al getto rancido del cielo traverso di latte e urina bollente sui passi malfermi, nell’inguine dell’acquasantiera e un’aureola di mosche, leggera. Sai anche la strada che resta quella che sempre ritorna e se dall’alto vuoi sceso qualcosa o sale la bestia a cercare di nuovo ogni mandria è un’ombra una macchia paziente di fiati, e sorprende ogni volta la notte la gola riaperta in un coro.
CHASTÉ
La penisola è il compromesso ideale fra prerogativa e assenza, è quello che rimane della terra che ha finito le ragioni per essere tanto intensamente terra, l’impasse intralpina dell’anima che non osa tentare da capo lo slancio e l’arresa. E si sparge, si disfa nel rendersi acqua da sé, lacrima lenta compresa a riassorbirsi nell’occhio. Non è mai stata arca stretta a ridosso del monte e non può riconoscere diluvi. Il conflitto insanato di tutti i suoi giorni sta in un piccolissimo scarto fra la geografia e la storia, una mappatura compresa di sé e quel tempo mai ritrovato, tra il corpo e il suo gesto il desiderio ancora sommerso e uno spreco di tenerezza.
FEX
Abiti maldestramente la parola data seduta di fronte alla valle lasciato Sils alle spalle e là in fondo il ghiacciaio. La parola che hai dato a te stessa non credevi poi tanto di fretta e a un tratto si fanno pressanti i gerani alla sua finestra. Ti aspetta un esilio d’agosto la carta di un incessante scalare la lingua dei corni ricurvi un piatto di orzo a minestra. E intanto rinunci al ricordo infili risoluta le tasche si perde qualcosa vitale ma il resto rimane giù in fondo schiacciato tra foglia e coltello perduto lontano dal mare.
GUARDA
Il tango è maldestro si avvita a tornanti alla pietra che domani si aprirà fino a valle, pallida pietra da intaglio che sconfina nel legno di cirmolo soffiato in fontane, case pinte, a rintocco, le mani allacciate, in un cielo d’agosto senza siesta. È il tango del toro che ha divelto il recinto senza i bei genitali, il ballo immensamente sordido della migrazione in tondo con la coda, e la morde. Non c’è altra speranza all’infuori dell’esito tipico tutto in sagome tenere, strette in vita, arrovesciate.
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