« indietro MARIO FRESA RISOLUZIONE
Ho il passo di vetro, ora che m’affaccio curioso, ma col timore del risveglio: con le dita che stingono sopra l’instabile schiena del letto, con gli avanzi dei nomi che fanno tremare la pace delle labbra: è questa, mi dicevo, l’ora. Potremmo, felici, svuotare le mani: scioglierle, adesso, come armi inservibili: ora soltanto, mi ripetevo, si potrebbe aspettare silenziosi l’aprirsi della vita, distesi in una dolce finta, come un docile cavo sorpreso dalla luce. PADRE
Legato al suo rifugio, le gambe spezzate dal gelo: dopo l’entrata silenziosa, era il momento di accendere le stanze, di raccogliere i fiati nei bicchieri. «Hai vinto tu. Se vuoi, potrai partire anche domani: perché adesso, qui, restare è come muovere parole quando il medico t’intasca il suo cucchiaio sulla lingua». Pulendosi le scarpe, lo sguardo a mezzo, facendo finta, dalla finestra, di lisciare con le dita i muri che s’ergevano di fronte. Timidi baci, anche, appena dietro la porta, «ma questa è una giornata senza odore», cominciando a girare, nervoso, per il bianco, sottile corridoio, cercando almeno di riattaccare gli adesivi colorati, pendenti dalla parete antica della cucina. Diceva: è come se anch’io svanissi, riallacciando furioso le belle figurine: questa colla non tiene, vedi, e i piedi hanno già l’aria di cercare riposo sulla terra, chiudendosi crudeli, come una bocca stanca di baciare. Poi, fitte parole, consegnate soltanto al vetro del balcone, l’occhio pronto a lasciare la bava su ciò che gli sfuggiva: lucido volgersi appena, con le briciole strette nella mano, per ritrovare l’acqua dell’inizio, la bianca risalita dell’uscio di casa. ELEGIA DELLA FINE
Qui, dunque, vicino al mucchietto dei libri, la mano in tenzone con l’oscillante, semivuota tazzina da caffè : io che sfiatavo, senza più calma, nel tepore dei tuoi «smettila, dunque, o ci vedranno». Eppure, senti: non conoscevo il festoso saluto dei lunghi giorni già finiti, non sapevo cosa fosse il far di conto col respiro stupito: non conoscevo, credimi, il levarsi da terra tramortito, lo sfinente chiarore dell’ultima battuta. Ora di certo ti sforzerai di accogliermi sotto una luce provvisoria, come il passo disarmante della pioggia, come uno sguardo che prodigo m’invita e d’improvviso s’allontana e muore. L’arrivo è preparare la caduta, è fermarsi nel tuo dimorare: perché vibra il tuo corpo, sempre, nell’abbandono, regalo apparente del vergine caso: quando, salito appena, mi nomina la voce nell’offerta dell’ombra, come un distratto, cieco domatore scivolato in un fuoco di prova: dono inatteso, ora che vedi ti mostrano dall’alto l’invisibile gioco delle spade: ma tra i denti della parola, disse così, è un invito necessario alla vista, l’agitata mia parola: che spinge o separa, subito da accendere, come sposa che risplende prima di partire, come pietra che vive tra le dolci contorsioni del tuo nervoso andare. ¬ top of page |
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