« indietro GIULIANO DONATI, La Collinetta, Milano, Lietocollelibri, 2001, pp. 80, s.i.p.
Si pensa, leggendo la nuova raccolta di Giuliano Donati, alla metafora espressa da Seamus Heaney nei versi: «Tra l’indice e il pollice / Ho la penna. / Scaverò con quella». La collinetta è infatti un libro in cui la valenza metaletteraria dello scavo, cioè il lavoro di revisione condotto dall’autore intorno ai testi, è evidenziata a più riprese, come nell’incipit della prosa: «Chinato a scavare, le mani nella terra, sono lì che aspetto sulla collinetta. Ma non arriva nessuno; così io continuo, non smetto, sono lì da solo come se non trovassi mai niente». Tale operazione di scavo non ha restituito il corpo mummificato dell’uomo di Grauballe descritto da Heaney, ma le povere ossa calcinate di qualche gattone della periferia lombarda. Dopo la pubblicazione di Api e cavalieri e Tolti dalle tende (Crocetti, 1988 e 1990), Donati approda alla sua prova poetica più matura. Il libro si configura come una speculazione intorno alla memoria del ‘vissuto’ su forme e cadenze molto differenziate. Al poemetto intitolato Villa don bosco, su ricordi collegiali infantili dei tardi anni ’60, subentrano serie di componimenti epigrammatici dagli esiti allucinati, stranianti che ricordano soluzioni surrealistiche di Bodini o De Libero; alle prose di Crotto Urago e Un canale, intessute di riferimenti toponomastici (il Villoresi, piazzale Lotto, via Ermada), si sovrappongono i requiem scritti in onore dei gatti del quartiere, ispirati più o meno parodicamente all’intrapreso lavoro di traduzione dei Requiem rilkiani. Ma quanto più colpisce è l’accento disarmato con il quale Donati si rapporta ad un mondo in evoluzione, sia che descriva la collinetta dove si rinnovano le rincorse dei bambini, sia che dipinga con i colori terrosi di Sironi la realtà metropolitana di un sobborgo anonimo, così simile a quella dell’hinterland milanese rappresentato da Milo De Angelis. Le descrizioni di questo paesaggio degradato, dove le erbacce crescono tra lamiere e detriti, convivono con le interrogazioni sul senso di scrivere versi nell’epoca della tecno/globalizzazione, di esprimere l’amore per un figlio soprannominato ‘dentino’ o ‘nuvola’. Tutto è vissuto all’insegna di un accento favolistico che connota gli stessi momenti ordinari e domestici, retaggio forse di quella ‘linea lombarda’ la cui influenza si avvertiva nelle prime raccolte e dalla quale sembra essersi definitivamente svincolato, trovando una cadenza sincopata che più risulta congeniale ai momenti descrittivi e elegiaci del suo personalissimo dettato.
Pasquale Di Palmo ¬ top of page |
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