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Leggendo Il noto, il nuovo, «opera di poesia della storia» stando alla calzante definizione suggerita dall’autore stesso, si ha la conferma che la trappola che scatta a serrare noi contemporanei, donne e uomini del Ventunesimo secolo, sia da individuare nella cattiva infinità del secolo breve. Posto che nessuno mai, nella storia, ha potuto giudicare felice il proprio tempo (Frene ha cura di liquidare fin da subito l’adagio, divenuto luogo comune, del mala tempora currunt), la peculiarità della nostra epoca rispetto alle precedenti consiste nell’aver soppiantato un secolare paradigma storico per così dire dinamico (la parabola discendente del genere umano dal paradiso perduto delle origini all’inferno del presente) con uno statico, anzi assiderato, glaciale – «Fa freddo nella storia», insegna Caproni – rigidamente inscritto entro gli angusti confini del secolo scorso. Con i suoi traumi e le sue ferite immedicabili (a partire dal Trauma per eccellenza: l’Olocausto), il Novecento continua a essere l’unica, imprescindibile ossessione della cultura contemporanea, il «[...] motore immobile, che irradia livido / un’acqua di sillabe», per dirla con i versi di Frene, imbuto dove il liquido ‘male’ dei secoli fatalmente precipita, determinando tanto la percezione del già stato (‘il noto’) quanto l’intelligenza del presente e, quel che è peggio, del futuro (‘il nuovo’). Bizzarro egualitarismo livellante di un paradigma storico che tutto irresistibilmente attrae, trascinando perfino Giovanni delle Bande Nere nel pantano delle trincee, vittima di un cecchino. «Né ‘progresso’, né ‘tensione’, né ‘regresso’», insomma, ma sinistra compresenza dei tempi («l’ala, che sopra il fatto, si rifà; potere», con bella immagine benjaminiana), e dunque inevitabile collasso del presente: «l’io non è il problema, il problema / è l’oggi, che / non esiste [...]». Di questo guaio dell’inesistenza dell’oggi (che è l’esatto opposto della demenziale ‘fine della storia’ di Fukuyama), Frene assume nei suoi versi il doloroso fardello, nel che sta il fulcro, ci pare, di quella ‘svolta etica’ che Paolo Zublena, nella prefazione al volume, individua come significativa novità de Il noto, il nuovo rispetto alla precedente produzione della poetessa. La riflessione sulla storia, su cosa sia divenuta la storia da quando l’oggi, l’inferno dell’oggi, non esiste più (essendosi fatto, dice Frene, «prospettico», ovvero dotato di falsa profondità), si interseca dunque con una questione non meno decisiva: cosa è divenuto il poeta, e quale il senso del suo «agire». Testimoniare l’accaduto, certo, assumendo su di sé il peso della colpa che il potere, foucaultianamente inteso, preferisce rimuovere («[...] mantenere inalterato l’abominio / comunque compiuto»), ma anche ricordare che se il Novecento è ancora qui, tra noi, troppo facile sarebbe disinnescarlo attraverso le categorie opportunamente distanzianti della ‘memoria’ e del ‘ricordo’. In questo, ci pare, la poesia di Frene si avvia con Il noto, il nuovo ad acquistare una dimensione non solo etica, ma anche decisamente politica. L’idea che l’essere umano sia mezzo e non fine, dunque privo di valore in sé, fu certo nazista, ma al nazismo preesisteva (basti pensare all’immenso, redditizio macello della Grande Guerra) e al nazismo è sopravvissuta, perché connaturata alla sola vera ideologia rimasta in piedi, dopo tutto (e nonostante faccia di tutto per convincerci di non essere tale: Žižek insegna), ossia il capitalismo, «bocca perennemente spalancata che mangia il guasto domani». Per citare un passo di Slaughterhouse-Five che ci pare illuminante rispetto a questo tema della falsa prospetticità dell’oggi nel quadro della onnipervasività ideologica del modello consumistico-capitalista: «We went to the New York World’s Fair, saw what the past had been like, according to the Ford Motor Car Company and Walt Disney, saw what the future would be like, according to General Motors» (il richiamo a Vonnegut non è pretestuoso, se il titolo di uno dei componimenti esplicitamente lo cita, intersecandolo con il Morselli di Dissipatio H.G.). La negazione della dignità umana che passa per la mercificazione dell’individuo (dell’immaginario, della memoria...), è dunque la pesante eredità che il ‘noto’ Ventesimo secolo ha trasmesso, purtroppo intatta, al ‘nuovo’ Ventunesimo; l’opera di disonesta (dis)simulazione cui il poeta viene costantemente sollecitato (è bene limitarsi a scribacchiare versi di «pura manutenzione», di mero «buon senso»...), è la tentazione cui occorre resistere con tutte le forze, così da far spazio, sulla pagina, a quel bisogno di ‘sovrabbondanza umana’ (parafrasando il Bloch di Das Prinzip Hoffnung) che è il ribaltamento esatto del concetto di surplus capitalistico. I testi che compongono questo libro, di straordinaria asciuttezza e pregnanza figurale oltre che concettuale (sebbene talora segnati da qualche eccesso ellittico, fino a sfiorare l’oscurità), vanno, ci sembra, in questa direzione, aprendo un percorso di riflessione sul ruolo della scrittura davvero non comune, per profondità e complessità di analisi, nell’attuale scenario della poesia italiana. Da sottolineare poi come anche questo nuovo lavoro di Frene, in linea peraltro con molta della migliore poesia contemporanea ‘al femminile’, eviti i sentieri battuti del lirismo più o meno latamente sensualistico (nei suoi esiti drammatici o contemplativi), percorrendo invece la strada di un dettato poetico che, attraverso il ricorso a un’ampia gamma di modalità espressive (dall’epigrafe a una sorta di sommesso, ma incalzante, recitativo), sa farsi specchio di una limpida intelligenza speculativa. (Riccardo Donati) ¬ top of page |
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