Se non fosse per la ripartizione alfabetica che caratterizza le periodizzazioni temporali degli scritti critici di Maurizio Cucchi raccolti in Cronache di poesia del Novecento, potremmo definire il volume sulla base della formula annalistica: i saggi, le schede, gli interventi e le recensioni – collazionati da Valeria Poggi per la collana «Ingegni» dell’editore Gaffi – hanno infatti quel sapore di memorabilia che distingue, secondo la poetica in proprio del pur poeta Cucchi, i libri ‘da ricordare’ dell’ultimo trentennio del secolo scorso, con un’incursione nel nuovo millennio (1974-2005). Attraverso i suoi sentieri d’indagine, infatti, Cucchi delinea una precisa fisionomia del panorama poetico contemporaneo, delimitando una sorta di genealogia implicita secondo la quale il modello di poesia rappresentato s’incardina nei toni e nelle inflessioni della cosiddetta ‘scuola lombarda’, raccordando matrici stilistiche e opzioni meta-poetiche sotto l’unica etichetta della ‘chiarità’ della parola. Una ‘chiarità’ che, d’altro canto, non è indice di chiarezza, quanto piuttosto di una strenua eticità del dettato che, nella realtà del verso, si congiunge allo sforzo contiguo e unisono di rigore morale e stile individuale. L’idea del ‘grande stile’, soppiantata dalla tensione e dal controllo del dire, coincide con le possibilità evolutive della scrittura poetica nei termini di una sovrapposizione fra i due assi di verticalità e orizzontalità stilistica sul piano della più aperta comunicazione.
Cucchi ci invita a cogliere questi segnali della tradizione istituendo un vero e proprio canone: un canone che prima di tutto è comunicativo (passaggio obbligato per chi guardi prima al testo e poi alle sue funzioni), e che solo in secondo luogo diviene espressione dell’auctoritas. Non si scorge infatti nessuna discriminante di rilievo all’interno del discorso critico benché la penna scorra sui nomi diversi di Raboni, Giudici, Sereni, Bertolucci, Caproni, Luzi o Zanzotto (per citare intanto ‘i maestri’): tutti sono accomunati da quella strenua volontà di caratterizzare i propri percorsi ‘identitari’ pur nella specificità delle forme di volta in volta isolate o tentate in poesia. E tale percorso si chiarisce nei rapporti che, per via quasi genetica, gli autori appena citati intrattengono con le generazioni a loro successive: generazioni, appunto, che si succedono con ritmo sempre più sincopato e secondo scansioni non troppo identificabili (i nati negli anni ’40, i nati negli anni ’50), ma che comunque riparano sotto l’insegna di una costanza che trova nel ‘fare poesia’ un carattere esplicito di autenticità della poiesi. Del resto, lo stesso titolo del volume di Cucchi ricorda il disegno de La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959- 2004 (Garzanti 2005), attraverso il quale Andrea Cortellessa ripercorre le tappe del pensiero di Giovanni Raboni – riferimento, questo, cui si può accostare il più pragmatico esempio di Nel fare poesia, antologia con autocommenti pubblicata da Antonio Porta nel 1985: ciò a testimonianza e giustificazione delle scelte di inclusione nel diorama via via composto nelle 450 pagine che compongono il libro. È di fatto nella plurima occorrenza di autori che si sostanzia il giudizio di valore ad essi attribuito, pur nella sostanziale – ma non troppo rimarchevole – assenza di alcune altre esperienze.
Se una critica si può muovere, nel complesso, alla selezione operata in queste Cronache cucchiane, questa non è affatto diversa da quelle che sono seguite alle due edizioni dei Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori 1996, 2004): tuttavia, mentre nell’antologia curata assieme a Stefano Giovanardi le ragioni editoriali erano ben chiare al fine di motivare i testi e gli autori accolti e raccolti, in queste Cronache di poesia del Novecento il cerchio ci appare abbastanza stretto da poter sostenere con una certa sicurezza che Maurizio Cucchi – come accennato – traccia attraverso questi fogli il proprio canone poetico, trovando in esso le ragioni della propria poesia. Varie avvisaglie si possono rintracciare sparse tra gli spunti critici qui raccolti: un tentativo, dunque, di raccordo, di misurazione, o se si vuole di convalida che però non si esaurisce in un circuito auto-referenziale, ma spazia nell’individuazione di scritture affini alla propria individuale (ma non individualistica) modalità di operare all’interno del campo della poesia. Tornano così Majorino, De Angelis, Viviani, Magrelli e, di seguito, Antonio Riccardi e Nicola Vitale. Non bisogna però dimenticare l’insistenza su una tradizione spesso un po’ appartata o non troppo dibattuta alla quale Cucchi dedica una particolare dedizione, come nei casi di Giampiero Neri e Giuseppe Piccoli, e, allo stesso modo, l’analisi di certe esperienze che, nell’immediato, sembrano accostarsi poco allo scenario proposto come nei casi di Bellezza, Sanguineti, Spaziani e Valduga. L’unica determinante di scelta, è bene ribadirlo, si basa su un’assunzione di responsabilità etica e stilistica, per cui, scrivendo à propos del Giudici de Il ristorante dei morti, Cucchi può dire: «Il modo più autentico di continuare ad esserci con forza e a dire per il poeta che conta e la cui importanza è destinata a resistere, non è esattamente quello di ‘rinnovarsi’, di compiere tentativi o esperimenti che tutto sommato il breve tempo a nostra disposizione, molto avaramente, purtroppo, ci concede di fare e che alla fine annegano per lo più nel mare piatto della ‘letteratura’. Segno di presenza attiva e viva è piuttosto il muoversi in profondità verso il cuore della faccenda, verso il senso complesso ma poco variabile dell’esistenza» (p. 300). «Metti in versi la vita, trascrivi / fedelmente, senza tacere / particolare alcuno, l’evidenza dei vivi»: ecco, proprio nell’«evidenza» che sigilla la celeberrima strofe del poeta di Le Grazie, si può riassumere il senso di questo volume dedicato alla militanza critica di Maurizio Cucchi. In fondo, l’evidenza è norma di accettazione dei fatti, e i fatti costituiscono l’alimento della cronaca: l’evidenza della poesia, i caratteri che Cucchi assume e determina come imprescindibili, sostanziano la sua narrazione, ritagliando, con una precisione non di maniera, uno dei canoni (comunque, uno tra i più accertati) della poesia italiana di fine secolo – di fine Novecento.