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Semicerchio XXXIX (2008/02) Waste Lands. Eliot & Dante. pp. 68-70

 

del XX «Corso di Scrittura Creativa di Semicerchio» e Comune di Firenze – Quartiere 2

 

CATERINA BIGAZZI

Pietas (L’aruspice)

Tra le costellazioni di stanotte
s’accenderanno forse, in pace,
gli intestini aperti
del piccione schiantato sulla strada.
Avranno la forma di un groviglio
quei labirinti di luce
di cui nessuno ricorderà l’uscita.
Tra le formiche grate e nugoli d’insetti
sorriderà di lebbra il marciapiede,
scenario di solita luna,
all’indegna aruspicina,
al buio complice.

Da troppo tempo ormai lo stesso errore.
Anche stanotte, forse,
col naso in alto e gli occhi avvezzi
non vedremo che il cielo
noi in cerca di bellezze
e sotto i piedi niente
che davvero voli o valga
un pio piccione,
quel suo sporco sangue asciutto
di colomba
mancata al dio-destino,
ora nel nido.

 

PAOLA BALLERINI

Nell’arcipelago cresce l’isola
travasa l’ambra
dalle parole precipitate a una a una
nella gola.
Crepita l’inverno alla porta
nella cattività
del tardo pomeriggio preme
l’alfabeto contro l’esofago.
Indietreggio fino alla corteccia
liberato l’agnello
pronunciato il nome.

 

L’isola

Omessi gli intervalli
il vento esorta il cielo.
Fendono i cespugli di rosmarino
le raffiche degli Alisei.
Varcano l’ibisco e il frangipane.
Scompigliano le palme.
Scuotono l’agave.
Si fermano sul cactus.

L’ombra del basalto
nel gesto si allunga
senza precauzioni.

***
Acini di bellezza
– è il tempo sospeso dell’attesa
tutta la natura in gestazione
prima del temporale –.
Il silenzio e le rose presidiano
i filari di vite.
Dispersa la peluria del soffione
la cintura fila d’oro i miei fianchi.
Il vento scuote il cipresso
la luce diviene transitoria
– l’estate
si inoltra a passi lenti
dentro l’età dell’uva –.


 

ZELDA S. ZANOBINI

Monte Faeta

Ed io ti vedo
voltandomi ti vedo, vedo i verdi
violati
giorni indigesti,
e in certe gite giovani variabili ti vedo
volontaria
di primavere vedove
guidare l’abitacolo, la Cinquecento energica
i cuccioli le lucciole catapultando
al cono bicolore
che il monte meridiano storce.
Eretta oltre la rete
ti vedo alla tribuna, altrui guardinga,
in alcun modo claudicante,
e il campo sotto vedo, i pigolati
canti di incaponite acerbe
corse sfibrate e basi
e scivolate e prese
volanti vedo in salto
nessun fortuito fuoricampo

E tu maestra professora fuori
soqquadro fuori
capigliatura e squadra, pendolante
contigua a chilometrici divari e vicinanze
tesa e capestra
sorridi solida
all’abisso

Voltandomi ti vedo, vedo il jersey
di certi pomeriggi tardi
vedovi e verdi di
gelato
gioco

 

Viola volando

Si volta Viola
Viola si volta e vola
vola avvolgendo in tonde
volute smerigliate
il mormorar del mare e nel materno
biondo ondeggiare
Viola volando bagnati
balugina bagliori rinomati
d’indomani di mare, di dorati
domani normali. E ninfa
falena
di voci snodate e note
mielose smerigliate
bionda balugina Viola volando
l’a mano ricamato costumino
sul blu bambino
del mare prominendo.

Tutto fuorché un tuffo, una folata
falcando fragorosa, una folata
totalitaria intrepida nel dipanarsi
dispiegante
degli invidiabili suoi tondi
benedetti due anni tondi di donnina
deliziante, miniaturizzata
ninfa falena e forse
futura
tuffatrice priva di paura.

E Viola Viola Viola volando
la bionda madre ed il marino
d’incenso cielo acciottolato
corruga, quasi che quanto
gli anfratti rifrangevano, nella folata
non fosse risultato
spumantemente
smerigliato.

 

ANNARITA ZACCHI

da Voi e lo sparso (2006-2007)

I nomi

L’anima piena di sottrazioni
e fili scoperti
vuole un colpo al petto,
un punteruolo rovente
sferrato da un dio, da un nome
o dalla foto ritrovata.

Così dal nulla, la faccia della Luisa:
sporgeva il petto grasso dalla casa
costruita dopo la guerra per i poveri
ex contadini caduti dal fico al cemento,
stessi panni, stesse voci,
fatte per rincorrere vacche e vitelli.

La Luisa era questo: una moglie tradita,
madre di un ragazzo con un’auto gialla
senza tetto, senza denti a sinistra.
I due interrotti dal bolide
del padre con l’amante,
ex fascista, bello e con un ufficio
dove io quasi bimba facevo conti,
con stupore, cieca del salto dal banco
di scuola, messa a parte di storie
scure – la collega che abortiva.
Luisa e il figlio e un’altra figlia,
più furba e già con un piede
su mattonelle di ceramica stampata
del futuro marito, anche lui pochi denti;

Luisa con la casa popolare sulla strada,
ma non una qualunque,
una strada che porta fuori, alla fine del paese,
nel buio dei castagni e verso posti
dai nomi riservati a chi va
solo per amore e per funghi.
Carbonaia, Torrite, la Grignetola –
su per il Conchiuso,
o giù verso le trote del Calorino.

 

Vasco

A mio padre, scoprire che scrivo fece
chissà che effetto: a me, delicato,
mostrò di non aver parole in bocca,
e la chiuse.

Di nuovo la figlia non è quella
che rassicura di numeri e di cose,
ancora c’è da stare in pena per lei.

Oppure: con poche parole tutte per te,
come nella nostra discesa con la slitta,
– io senza fiato di freddo e felicità,
ti ho rubato l’alito.

 

nascondere (per l.)

Sotterro l’orto
in cui ho seminato
con te
la nostra estate.

A piedi freschi
riflessi di sole
nei lunghi silenzi
dei corpi
resi semplici
da gesti colti al volo
nella pace
di assenze assolute.

Lo sotterro perché
l’autunno non scalzi
con le sue facce uguali,
di gomiti piene le stanze,
la zolla
che ci ha accolti
in divertito amore.


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