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SERGIO GIVONE, Vivavoce. Filosofia e narrazione. Con una riflessione critica di Umberto Curi, Verona, Anterem Edizioni, 2010, pp. 87, s.i.p.

 

Mythos, narrazione e filosofia non-scritta: un trittico forse controcorrente ma coinvolgente ed appassionante. Questo piccolo libro è stato pubblicato perché vincitore del Premio Speciale della Giuria del Premio di poesia Lorenzo Montano, XXIV edizione (2010), sezione Opere scelte-Regione Veneto. Nasce dal riconoscimento della necessità e della bellezza (caratteristiche indicate come cardini del Premio) delle conferenze tenute da Sergio Givone nel 2006 (a Venezia e Torino), nel 2007 (a Crema e Valladolid), e nel 2009 (al Castello di Padernello, a Chianciano e ad Abano Laziale). Arricchito da due interviste all’autore – di Lorenzo Chiucchiù sul romanzo e di Bachisio Meloni sul pensiero tragico – il testo si presenta come una raccolta di parole prima dette, poi scritte. E proprio questo è il suo pregio: la leggerezza, che non è superficialità ma consapevolezza di libertà dagli schemi rigidi del saggio; accesso a quell’ambito così spazioso, e spesso temuto dal conferenziere, dell’improvvisazione, del libero fluire delle idee e delle considerazioni. Non trattandosi di convegni scientifici ma di conferenze occasionali per un pubblico non specializzato, Givone ammette, nelle «Note dell’Autore», di non essere partito da una relazione scritta; forse la scelta si deve anche al fatto che la non-struttura favorisce certi voli verso quell’assoluto, quell’infinito che la poesia insegna essere percettibile, faticosamente descrivibile e talvolta raggiungibile soltanto con strumenti linguistici extra-ordinari e soprattutto extra-filosofici (intendendo la filosofia esclusivamente come discorso logico).

Umberto Curi nel saggio introduttivo ripropone l’idea della Narrazione come pratica filosofica, presente in Platone, per descrivere l’opera di Givone, situandola in contrasto con la tradizione logico-argomentativa «tecnicistica» del pensiero novecentesco. Dopo Platone ed in particolare con Aristotele si sviluppa e si afferma una contrapposizione netta tra il linguaggio filosofico, dominato dal logos, ed il linguaggio letterario, dominato dal mythos. Aspetti che, secondo Curi, ridiventano complementari nella riflessione «pioneristica» di Givone; il quale è filosofo rigoroso nelle analisi storiche e concettuali ma anche prolifico scrittore di romanzi e sembra riconferire al mythos quel valore filosofico, quella capacità di rendere chiaro il concetto e di essere portatore di verità. Giambattista Vico e i suoi miti come «espressioni di verità per immagini» ritornano, secondo Curi, perché le figure simboliche del mito possono raccontare una «perfetta identità fra essere e significato, fra realtà e idealità, fra bellezza e verità». Vico ricorre costantemente nelle conferenze di Givone; Socrate invece, citato da Curi indirettamente parlando del Protagora di Platone, sembra richiamare l’importanza, forse dimenticata, della dimensione orale nella filosofia. Importanza che Vivavoce sembra timidamente riproporre (e contraddire insieme, per il solo fatto di essere scritto). Givone è un eloquente oratore, possiede una rara capacità di sedurre l’ascoltatore delle sue lezioni, parlando con entusiasmo platonico e realizzando una bellezza sia formale che di contenuto con le sue costruzioni linguistiche, logiche ed analogiche; ha una grande capacità di cogliere l’essenziale e di esprimerlo in una forma poetica, mediata dalla struttura logico-filosofica ma non esauribile in essa. Tono poetico che stimola a essere imitato, a compiere nuovi e ulteriori salti analogici, comparazioni lontane nel tempo o nello spazio. Givone in effetti accosta autori diversi illuminandone il significato comune e profondo del pensiero dell’essere umano. Arte della parola, gnoseologia del pensiero raggiunte con grazia e finezza. In Chi ha ucciso l’arte, per esempio, l’autore mette in connessione arte, letteratura e filosofia, nel nome della risposta a una domanda: è morta l’arte? E nella ricerca del colpevole. Citando prima alcuni artisti contemporanei (Burri e Fontana), Givone si addentra, attraverso Hegel e la letteratura dell’Ottocento, nel Romanticismo (non tralasciando però riflessioni su opere classiche come l’Odissea o la Commedia); per poi ritornare alla modernità (con Joyce e Celan). Non si può parlare né di omicidio né di suicidio, ma di un «gesto inaudito» che l’arte compie verso se stessa e per cui «non abbiamo ancora trovato un nome» adatto ad esprimerne il lato «oscuro», «autodistruttivo». Forse patologico, rispecchiante lo spirito del nostro tempo, malato, ossessionato dall’ossessione? In questo libro troviamo una sottile ironia, che smuove le fondamenta, sempre accompagnata da una base cristiana, che invece sostiene il discorso filosofico, di pascaliana memoria. Riflessioni sul tragico, sul destino: parole non scritte, che forse meglio conservano la libertà (fondamento dell’uomo e delle cose che sono) tra le righe del pensiero; libertà che non essendo stata rimossa incide, sconvolge, seduce l’ascoltatore, ed ora, grazie a questa pubblicazione, anche il lettore.

 

 

(Giuditta Cianfanelli)

 


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