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PATRIZIA CAVALLI, Datura, Einaudi, Torino, 2013, pp. 123,€ 12,00.

 

Il titolo dell’ultimo libro di Patrizia Cavalli, Datura, indica una pianta ornamentale che può provocare allucinazioni e avvelenamento anche mortale. La descrizione dettagliata di questa pianta, contenuta nel componimento di chiusura, permette di mettere in campo un’accesa difesa del compito del poeta, ovvero quello di spingersi oltre la «scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa» (p. 114) per raccontare la realtà con le sue sfumature e bellezze, vale a dire «giocare alle parole / immaginando senza un’identità, / una visione» (p. 114). Da qui deriva la gioia di sapere che la bellezza non esiste senza chi la percepisce e, di conseguenza, la consapevolezza che «qui è il mio valore. Io valgo più del fiore» (p. 114). Eleggere a titolo del libro il nome di una pianta velenosa il cui ciclo vitale è descritto con sguardo attento significa evidenziare il valore essenziale delle parole che trionfano sulla morte, senza escludere il dubbio che questa ‘visione’ sia in realtà una semplice allucinazione indotta dalla pianta tossica.

Come nella raccolta precedente Pigre divinità e pigra sorte (2006), il volume comprende componimenti anche piuttosto lunghi dall’andamento riflessivo. Ma la poetessa non ha abbandonato del tutto la fresca e impertinente ironia delle opere d’esordio. Si pensi alla seconda poesia del libro e al suo abile uso della tautologia: «Essere nati, non solo essere nati, / ma anche in una data, proprio in quel giorno / precisamente nati» (p. 6). L’iterazione si fa gioco che evidenzia il carattere autoreferenziale della lingua, ma è anche possibilità di riscattare termini ed eventi usuali rivalorizzandoli in senso vitale. Tratto tipico della poesia di Cavalli è anche il concludere un ragionamento con uno scioglimento comico imprevisto. Nel componimento Il destino figurato si dispiega ad esempio una riflessione sul destino immaginato come una maglia che col passare del tempo lentamente si sfila lasciando il soggetto nudo e indifeso nel momento fatale. Il procedere serio della riflessione viene ribaltato da un gustoso colpo di scena quando, alla fine del testo, il soggetto, preso da un inatteso senso di vergogna per il proprio corpo non più giovane, esclama con preoccupazione «Ma come / mi presento, come faccio / con questo assurdo malloppetto sfatto!» (p. 7). Anche qui la funzione è doppia: da un lato vi è abbassamento ironico poiché la riflessione sul destino viene spostata da una nudità metaforica utile ai fini astratti della dimostrazione a una nudità concreta vissuta con personale imbarazzo, dall’altro questo cambiamento di prospettiva crea un effetto di intensificazione drammatica perché la situazione risulta nella sua quotidianità più vicina ai lettori.

Altri elementi indicano che il volume è coerente con il percorso poetico di Patrizia Cavalli: il motivo del gioco come sospensione del tempo, la figura rigenerante del cerchio che si oppone a movimenti rettilinei di valore negativo, i riferimenti al mondo urbano e in particolare l’immagine della piazza, luogo caro alla poetessa che in passato aveva già denunciato il degrado delle piazze romane invase da turisti e commercianti. In Datura, come ne Il cielo (1981), il desiderio è inoltre collegato a eventi meteorologici: alta e bassa pressione atmosferica agiscono sugli umori e le passioni umane. La raccolta tuttavia non si limita solo ad approfondire temi familiari alla poetessa e presenta importanti sviluppi. Come rileva Giorgio Agamben in quarta di copertina, l’opera di Cavalli ha rilevanza ‘etologica’ poiché i suoi versi permettono di conoscere meglio alcuni aspetti del comportamento umano. Seguendo ritmi scanditi da frequenti assonanze e rime interne, la riflessione poetica si concentra su ciò che distingue gli umani dagli altri esseri viventi. Vi è innanzitutto lo stupore che accompagna l’esperienza estetica. La poetessa evidenzia poi l’ostinato e talvolta ottuso bisogno di stabilire rapporti di causa ed effetto tra cose ed eventi: «Io chiedo tu rispondi noi spieghiamo / mettere insieme è il gioco dell’umano» (p. 114). A questa inclinazione umana al collegamento e alla costruzione si riferisce anche il componimento Tessere è umano dove la poetessa usa la metafora del telaio e del rapporto tra Ordito e Trama. Tipicamente umano inoltre è il senso di appartenenza che sfocia nell’idea di patria. Superando semplificazioni e «stereotipie più che banali / […] già pronte in confezione nei giornali» (p. 22) l’idea di patria cui aderisce la poetessa mostra confini incerti e una caratterizzazione fortemente empirica. Patria significa sentire anche fisicamente un senso di armonia in un determinato contesto, magari anche solo sfuggendo all’aggressione di rumori assordanti e odori artificiali, incontrando persone al mercato capaci di calda simpatia e onestà, ritrovando anche all’estero in situazioni quotidiane un «denso concentrato di esistenza» (p. 26).

Uno degli aspetti più innovativi del libro si trova però a livello formale. Come ricordato, la raccolta Pigre divinità e pigra sorte (2006) presentava forme monologanti ampie e riflessive, forme che venivano accostate a epigrammi brevi e fulminanti ponendo però di fatto il problema di come coniugare senza forzature due tendenze contradditorie come il ragionamento di tipo filosofico con portata generale e il discorso impertinente di un io ‘singolare’ che rifiuta di prendersi presuntuosamente sul serio. La complessa architettura di Datura sembra rappresentare, almeno per il momento, una soluzione. L’atto unico in tre scene intitolato Tre risvegli svolge, all’interno della raccolta, un ruolo essenziale di collegamento e mediazione. La forma dialogata contribuisce ad articolare e precisare il rapporto tra serietà e leggerezza, permettendo di superare l’opposizione frontale tra l’esposizione costruttiva del sapere e l’ironica denuncia della sua parzialità. Il testo unisce in modo originale la forma seria del teatro classico greco e il tema, in apparenza più lieve, della mutevolezza dei sentimenti in relazione a fenomeni atmosferici. La Scienza, ossia la lucida analisi del comportamento e della natura umana, diventa anche Teatro. Se il soggetto poetico dichiara di voler creare e comunicare una ‘visione’, afferma anche: «Io voglio che stravedi non che vedi!» (p. 34) augurandosi, in modo paradossale, che l’altro sia ingannato da eccessivo affetto. Anche il poeta, come tutti, recita una parte nel teatrino della vita e della conoscenza.

                                                                                                             (Ambra Zorat)
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